Se, come precedentemente riferito, il nostro ruolo di psicoterapeuti ci “obbliga” inderogabilmente ad effettuare un lavoro sulla “Psiche”, non ci resta che decidere che tipo di intervento poter svolgere, e soprattutto che tipo di metodo usare, cioè, intendo dire, a quale modello teorico aderire.
E’ anche vero che a volte, come accade per i fattori causali, non è sufficiente tener presente un solo modello teorico, per poter adeguatamente fronteggiare tutte le sfaccettature di una struttura psicopatologica.
E' possibile che alcune teorie concettualizzino meglio un aspetto che un altro e che di fatto nella pratica ottengano risultati migliori relativamente a quell’aspetto, così come può accadere che teorie artificiose (complesse) capaci di spiegare la maggior parte dei fenomeni di una determinata condizione morbosa, non riscuotano poi dei risultati soddisfacenti sul piano clinico operativo; ma che ad aver la meglio in questo caso sia invece un paradigma riduzionista della stessa complessità. Ancora potremmo dire, che lo stesso modello teorico-pratico può avere effetti diversi sulle stesse forme psicopatologiche o effetti simili se applicato a due diverse manifestazioni cliniche.
Beh! Che dire? Che pensare? …che forse questo è il motivo per cui non esiste un unico ed universale schema teorico di riferimento? Oppure che in assenza di una teoria cosiddetta “Potente”, come è stata considerata quella Bowlbyana, ne vengono generate di alternative, ma di parziale efficacia (deboli) per necessità clinica?. Credo che al di là di queste semplici domande che spontaneamente nascono nella mente di chi un “po’” conosce questo intuitivo ed affascinante campo della mente umana, una cosa sia sicuramente vera, che nel nostro ambito purtroppo o per fortuna l’oggetto di studio corrisponde allo strumento con cui si opera. Pertanto credo, che la complessità del nostro lavoro sia dettata da più complessità : sistema “Uomo”, sistema “Disturbo”, sistema “Terapeuta-paziente”, “Sistema socio-contestuale” in interazione fra loro, e che lontani dall’essere del tutto svelati nei loro misteriosi, mutevoli e a volte ingannevoli meccanismi funzionali, ci pongono dinanzi ad una missione da compiere, quella di salvaguardare nel miglior modo il benessere psicologico delle persone.
Il miglior modo, è tutto ciò che noi siamo chiamati a fare, ma prima ancora a conoscere, per poi capire se bisogna conservare, cambiare o modificare quella determinata impostazione. Intendo dire in pratica, che nell’operare quotidiano prima ancora di un modello teorico di riferimento, che pur flessibile dovrà esser in qualche caso, c’è la persona del terapeuta e quella del paziente con le loro inequivocabili caratteristiche soggettive, ed è a parer mio in quest’interazione che ci giochiamo gran parte della riuscita terapeutica. E’ pur vero che a quest’interazione noi siamo formati, ma nonostante ciò le risposte dei nostri pazienti sono sempre diverse e questo, come accennato, dipende da molteplici variabili non sempre o del tutto controllabili; e forse a questo punto è il caso di dire che bisogna anche essere pronti a tollerare la frequente frustrazione derivante dall’imbattersi in casi “clinici” gravi. La creatività, l’improvvisazione, la sincerità, la dedizione, l’interesse, la passione, la curiosità e non ultimi l’aspetto solidaristico e il rispetto dell’individualità, sono gli ingredienti migliori per poter entrare in contatto con quello stato di sofferenza psichica in apparenza caotico, incomprensibile, talvolta aggressivo. Credo che il sofferente che incontri tali caratteristiche in un altro diverso da sé abbia, sia nel caso di una sindrome schizofrenica positiva che negativa, quasi sempre la possibilità di ottenere un significativo miglioramento sul piano del proprio benessere psicologico individuale. Posso intanto affermare tutto ciò, per averlo appreso direttamente attraverso un anno di tirocinio post-laurea svolto presso il dipartimento di salute mentale dell’ASL CE 1 “Comunità Melampo”, con l’esperienza quadriennale svolta presso la comunità terapeutica “Andromeda” (Centro studi e riabilitazione delle malattie mentali) in Nocelleto di Carinola (CE) e infine nei due anni lavorativi trascorsi nel Centro Sociale per persone diversamente abili del comune di Rocca d’Evandro (CE) in via Campo dei Fiori.
Posso dunque a questo punto concretizzare le mie motivazioni più strettamente tecniche, non solo nella possibilità di apprendere quello che è il giusto approccio a questo mondo “Fantastico”, ma cercare soprattutto di approfondire in termini integrativi, tutte quelle strategie e tecniche terapeutiche efficaci nel restituire, possibilmente, alla persona affetta, una migliore qualità di vita. Verificare la validità di tutte quelle ingegnose teorie e possibilità interpretative, raccolte oggigiorno in diversi testi specialistici, su quegli aspetti deliranti che un tempo, da non addetto ai lavori, ritenevo semplicemente privi di senso.
Oggi, posso ritenermi sicuramente soddisfatto per essermi procurato tante risposte, ma so che tante altre ancora dovrò trovarne per essere sempre a passo con i tempi, proprio perchè “Non si finisce mai di apprendere”. Nella seguente trattazione sulla psicosi schizofrenica, mi propongo quindi di effettuare una sintesi costruttiva delle più autorevoli teorie di orientamento sia psicologico che biologico inerenti i fattori etiopatogenetici e i relativi modelli di trattamento. Lo scopo è quello di fornire nuovi spunti riflessivi mediante l’osservazione delle differenze e delle analogie fra i più attuali modelli teorici di riferimento. A partire dalla fine dell’800 fino ai giorni d’oggi diverse teorie e applicazioni cliniche sono state messe a punto circa l’etiologia ed il trattamento di questo disturbo, che da anni attira l’attenzione di clinici di diversa formazione. Ho deciso dunque, di iniziare con un’esposizione delle varie modalità di concepire la malattia di mente presso le società primitive, per informare il lettore su quelle chiavi di lettura dei disturbi mentali che non risultano tanto dissimili da quelle odierne. Che se da un lato il malato veniva visto come indemoniato o tacciato di stregoneria, si era comunque dotati di varie metodologie per cercare di guarirlo. Si noterà infatti come il pensiero degli uomini primitivi tanto lontani da noi, abbia invece tanti punti in comune con il nostro modus operandi e non solo, ma con lo stesso pensiero regressivo del paziente schizofrenico; una regressione che investe non solo il livello ontogenetico ma anche quello filogenetico, si pensi infatti al tipico “Pensiero magico” che ritroviamo dominante e nel malato d’oggi che in quello d’un tempo. Inoltre, noteremo come diverse tecniche psicoterapeutiche attuali siano le dirette discendenti di quelle primitive, e come nonostante l’evoluzione millenaria con i suoi sostanziali cambiamenti, ci ritroviamo oggi a fronteggiar gli stessi interrogativi, almeno per alcuni aspetti.
Proseguendo poi…con i cenni storici sulla nosografia delle psicosi con specifico riferimento a E. Kraepelin prima e a E. Bleuler poi, considerati pionieri nello studio della Schizofrenia, esporrò le principali intuizioni della teoria psicoanalitica, i principali apporti della psicoterapia sistemico-relazionale, la visione fenomenologica, l’approccio cognitivo-comportamentale e quello più squisitamente cognitivista.
Il fine ultimo del presente elaborato sarà però, il tentativo di applicare il modello cognitivo-causale con la sua SMM (Struttura Motivazionale Multilivello) alla comprensione degli aspetti motivazionali del funzionamento psicotico. Quest’ultimo punto sarà soltanto concettualizzato alla fine di questa prima parte, venendo dettagliatamente elaborato invece nella seconda parte clinica della tesi, dove ci cimenteremo nel trattamento di un caso di “Disturbo Schizoaffettivo -Tipo Depressivo” che seguo personalmente da ormai due anni.
© 2022. Tutti i diritti riservati. Tutti i testi presenti su questo sito sono di proprietà del Dott. Mancini Giancarlo partita iva 03458370610